Superiamo i clichè anagrafici. Ecco perchè anche gli over 55 sono dei talenti
L’Italia non è un Paese per giovani, in quanto non è un Paese di giovani. Secondo l’Istat, due terzi della popolazione lavorativa rientra nel range anagrafico 50-64 anni. È una fascia molto ampia. A prima vista, il processo di invecchiamento della popolazione italiana è fonte di preoccupazione. Per le ovvie ragioni: sostenibilità finanziaria del Welfare, deserto occupazionale, rapporto nuove e vecchie generazioni e via così. Tuttavia, c’è un’altra prospettiva da cui osservare uno scenario, a prima vista, allarmante. Ce ne parla Davide Conforti, fondatore di OfCourseMe e ora Managing Director di Edflex Italia, EdTech specializzata nella formazione distribuita attraverso le tecnologie digitali.
Davide, più volte si è parlato dei rischi dell’invecchiamento dei lavoratori italiani. E se fosse un bene?
La domanda è da porre in altri termini. In Italia tendiamo a polarizzare la conversazione: o parli di giovani, o di persone con un’età anagrafica diversa. È vero, ci sono due narrative differenti, ma chi l’ha detto che debbano essere in conflitto?
Giovani contro vecchi: è stato così da sempre.
E chi ha mai detto che sia corretto? Noi abbiamo due gruppi di professionisti. Il primo è fatto da giovani che si stanno affacciando sul mercato del lavoro o che vi sono entrati da poco tempo. Questo gruppo è la fonte di criticità quali retention, attrazione professionale, competitività dell’offerta del sistema economico italiano. Temi su cui dobbiamo lavorare tantissimo, sia come realtà private sia come pubblico. Stiamo perdendo troppe competenze. Ne esportiamo di pregiate e abbiamo difficoltà a importarne.
È la fuga dei cervelli.
Esatto. Un’emergenza su cui si sta cercando di intervenire, a mio avviso, in modo non sistemico. Se non si riduce il costo del lavoro, le aziende avranno difficoltà a garantire gli stipendi che questi giovani possono ottenere al di fuori dei nostri confini. Stiamo parlando di professionisti, con esigenze, ambizioni e strategie realizzabili benissimo altrove.
Poi c’è un altro gruppo.
Poi c’è un altro gruppo, appunto. Quello di chi ha una seniority diversa in azienda e che spesso si trova in una situazione di scarsa opportunità di crescita. C’è chi ha maturato 10, 15, anche 20 anni di esperienza in una realtà organizzata. Ne ha assorbito la cultura e i valori, conosce alla perfezione i processi, i prodotti, il contesto. Questi sono asset preziosi che non si costruiscono dalla sera alla mattina. Di tutto questo se ne parla poco. Quasi nulla. Al contrario, credo che le aziende dovrebbero spingere molto di più sulla riqualificazione professionale di queste donne e di questi uomini. In Italia, ci sono oltre nove milioni di persone che hanno ancora diverse primavere davanti, prima di poter ambire a una pensione decente. Ma che, ancor più, sono motivate e vogliono giocare un ruolo attivo in azienda. La sola condizione è che venga data loro un’opportunità.
Nove milioni, hai detto.
Esattamente. Il volume di attività di reskilling di questa fascia di popolazione lavorativa, che per dimensione e per il fatto che, per ragioni personali, non è portata a emigrare, rappresenta una miniera d’oro.
Questo vuol dire che l’over 55 non può più essere considerato anziano?
Faccio fatica a rispondere in maniera così tranchant. Ci sono giovani anagraficamente che si sentono arrivati a trent’anni e ci sono lifelong learner di 55 o 60 anni che si iscrivono alla quarta laurea, fanno corsi di aggiornamento professionale online e dimostrano una volontà, una curiosità intellettuale pari a quella di chi va a scuola. Bisogna scindere l’aspetto anagrafico da quello personale. Ci sono tante storie in azienda di riqualificazione professionale sopra i 50 e i 55 anni. Chiaramente sono persone che vanno accompagnate, dando loro gli strumenti per migliorare e aggiornarsi. Strumenti non solo tecnologici.
In che senso?
Questa è una fascia di età che non ha bisogno del “giochino online” per la formazione o della realtà virtuale. È gente abituata a studiare sui libri. Da parte di chi fa formazione, da parte nostra, bisogna essere seri e saper dire: «Guarda, tu hai vent’anni di esperienza come responsabile acquisti in una categoria merceologica che non è più strategica. In compenso, abbiamo bisogno di te come project manager con competenze anche analitiche. Ti sei formato sulle skill analitiche, ma ti mancano quelle di project management, gestione di progetti complessi e multi-stakeholder. Devi rafforzare la lingua inglese perché avrai più a che fare con colleghi all’estero».
Serve diplomazia, quindi?
Serve l’empatia per poter dire a chi, secondo un luogo comune, è destinato a un’exit strategy che c’è, invece, un percorso di riqualificazione professionale, che valorizza i suoi punti di forza personali e colmi i gap, per poter poi svolgere una nuova mansione. È un lavoro che ha più a che fare con l’attitudine del singolo che con la sua età anagrafica.
E in che tempi è realizzabile?
Sei, nove, massimo dodici mesi.
55 is the new 25!
Se vogliamo… Battute a parte, è evidente che i progressi della medicina possano portare un cinquantacinquenne a sentirsi in splendida forma. Io stesso mi sento più in forma adesso di quando ne avevo ventiquattro perché mi alleno molto di più. Lo stesso vale per il cervello: più lo alleni, meglio funziona, indipendentemente dall’età anagrafica.
Quali sono le misure per rendere competitivo un lavoratore maturo?
Credo che serva un enabler fondamentale. Dobbiamo smettere di considerare le persone sopra una certa età anagrafica come non talenti. Quando si parla di high potential in azienda, si rimanda automaticamente a un cliché anagrafico: giovani, ragazze e ragazzi, fino ai 35 anni. Se già ne hai 36, 40, figuriamoci oltre, non sei più talento. Il tuo potenziale, lo hai già espresso.
Un po’ disumano.
E soprattutto distante dal vero. La realtà è che il potenziale si esprime anche in funzione del contesto. Una persona che non sia riuscita a dare il meglio in un’azienda, potrebbe farlo altrove. Serve onestà intellettuale: dobbiamo ammettere che c’è del potenziale anche in chi ha più di 35 anni. Poi ci servono tre fattori a livello di processo: un’analisi organizzativa che consenta di far emergere le opportunità di riqualificazione professionale in azienda, sapere quali siano le competenze che mancano alla tua forza lavoro, infine bisogna mappare le competenze che hai in azienda. Bisogna fare un’analisi il più possibile dettagliata degli skill set che queste persone hanno acquisito in così tanti anni di azienda, e poi tracciare un percorso che colleghi i punti.
Questo dal lato impresa: dal lato lavoratore?
Il percorso dev’essere parallelo. Io ti porto dal punto A al punto B, con un processo di riqualificazione professionale, se tu hai la mentalità per starmi al passo. Se c’è resistenza al cambiamento non si arriva a un dunque.
Si è sempre fatto così per vent’anni…
Esatto. Frasi come queste sono dei respingenti. Attenzione però, non dipendono dall’età anagrafica della persona. È una questione attitudinale.
E poi? Una volta che si è arrivati al punto B?
Bisogna mantenere la promessa. Non si può permettere che quella posizione venga presa da un altro, magari più giovane. Lì si rompe il patto tra l’organizzazione e il singolo.
Davide, stai tracciando un complesso processo di inclusione, di cui imprese e istituzioni sembrano distratte. Perché?
Perché fa più notizia dire che si cerca di dare delle opportunità ai giovani. Al contrario, bisognerebbe analizzare la struttura del tessuto economico-sociale italiano del 2024 e dei prossimi anni. È una piramide rovesciata in cui i giovani sono pochissimi. Siamo in pieno inverno demografico. In Italia non vuole venire a viverci nessuno, se non chi fugge da situazioni di estrema difficoltà o chi vuole godere della bassissima pressione fiscale sui capitali già acquisiti.
Cosa non ci rende attrattivi?
L’ostinazione a non voler cambiare le cose. Se vogliamo che il nostro Stato sociale resti sostenibile da un punto di vista finanziario, dobbiamo permettere a chi ha più di cinquant’anni di continuare a produrre. Dobbiamo rivalutare la produttività del lavoratore. Se vogliamo che il sistema pensionistico regga, non possiamo permetterci di scommettere solo sui giovani. Abbiamo nove milioni di lavoratrici e lavoratori in grado di contribuire ancora molto al Pil e al gettito fiscale.
Qual è la legacy che possono trasmettere alle generazioni successive?
Penso soprattutto agli aspetti comportamentali. Chi vanta una seniority può trasferire una virtù sempre più rara: la pazienza. Le nuove generazioni sono esuberanti, vogliono lavorare su progetti che abbiano un impatto sociale immediato.
È nel DNA generazionale.
Ed è encomiabile. Tuttavia, i giovani non sono pazienti. Sono abituati a soddisfare qualsiasi loro bisogno con un tap su uno smartphone. Se vuoi avere un impatto nella vita e portare un cambiamento di lungo termine, non puoi pensare che la cosa succeda in cinque minuti. Spesso devi investire tutta la vita perché il cambiamento sia visibile. Questo richiede pazienza, costanza, spirito di sacrificio e adattamento, qualità che non vedo necessariamente come elementi distintivi delle ultime generazioni, mentre sono abbastanza connaturati, appunto, nel Dna di chi ha cinquant’anni o più.
Pensi che l’entusiasmo del giovane unito alla pazienza di chi è più maturo possa funzionare?
Penso che sia necessario trovare il mix ideale tra l’ambizione e l’attenzione alle tematiche ambientali e sociali delle nuove generazioni, e la concretezza, la pazienza e la consapevolezza che i cambiamenti sistemici non possono avvenire nell’arco di poco tempo, ma richiedono un investimento significativo di energie e tempo.
Questo però mette in discussione un elemento come la gerarchia.
Nelle organizzazioni sempre più snelle, il rispetto della gerarchia perde la sua ragion d’essere. Ha senso, invece, un certo modo di porsi nei confronti di colleghi, colleghe e processi. Le organizzazioni funzionano perché ci si dà delle regole, alcune scritte e esplicite, altre tacite. Se si inizia a compromettere queste regole, le organizzazioni smettono di essere tali e diventano organismi entropici e anarchici che smettono di funzionare.
Chiudiamo con l’Ai: tema imprescindibile di questi tempi. Intelligenza artificiale e lavoratori over 55: quali sono i rischi, e quali invece le connessioni possibili?
L’Ai e l’automazione industriale impattano sul lavoratore indipendentemente dalla sua età anagrafica. Già oggi Boomer e Millennial devono fare uno sforzo in più per iniziare a utilizzare questi strumenti nella loro routine quotidiana, semplicemente perché sono strumenti che hanno una componente digitale e tecnologica forte.
È un percorso inevitabile.
Sì, ma tutt’altro che insormontabile. Molto sta alla curiosità intellettuale del singolo: che tu abbia venticinque o sessant’anni, se sei curioso intellettualmente, una cosa ti stimola. Ci sono un’infinità di fonti online per poterla approfondire, chiaramente devi saperle scegliere, ma ci sono anche strumenti che ti aiutano a farlo. È essenziale che ci sia la volontà di approfondire senza paure dogmatiche queste nuove tecnologie, testarle in casi reali per vedere se effettivamente possono aumentare la produttività o anche la creatività, ed eventualmente aiutarti a fare meglio e più rapidamente il tuo lavoro.
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