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Dopo le “grandi dimissioni” arriva anche il “grande pentimento”

 

Dopo la Great Resignation, le grandi dimissioni di massa dal lavoro che hanno caratterizzato la ripresa post-pandemica, nel 2023 abbiamo fatto i conti con un fenomeno strettamente connesso al primo, il Great Regret, il “grande pentimento“. Secondo una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano presentata lo scorso maggio, il 41% dei lavoratori italiani che aveva cambiato lavoro nei 12 mesi precedenti si era pentito di averlo fatto. 

 

L’identikit del pentito

Nel nostro Paese il fenomeno riguarda maggiormente gli uomini con più di 50 anni di età residenti al Sud che devono fare i conti maggiormente con la difficoltà di ricollocarsi in assenza di un’offerta al momento delle dimissioni e tendono ad essere un po’ più resistenti al cambiamento, guardando al passato con maggior rimpianto, soprattutto quando hanno lasciato un’organizzazione nella quale avevano costruito solide relazioni sociali. Alla base del grande pentimento, però, come delle grandi dimissioni, in fondo c’è sempre la stessa motivazione: un malessere profondo rispetto al lavoro emerso in maniera importante dopo la pandemia con un forte disallineamento tra i desideri dei lavoratori e i modelli di leadership esistenti.

 

Miglioramento desiderato

In linea con questo sentimento, il fenomeno delle grandi dimissioni è tutt’altro che concluso. A maggio 2023 il 46% dei lavoratori aveva cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi o aveva intenzione di farlo, una percentuale che raggiungeva il 77% per gli under 27. La prima motivazione per cui ci si licenzia è cercare migliori condizioni economiche e benefit. Al secondo posto, in crescita rispetto allo scorso anno, la flessibilità nell’organizzare il proprio orario lavorativo. Al terzo, in continuità, motivazioni legate al proprio benessere personale: il 42% degli intervistati aveva fatto almeno un’assenza nei 12 mesi precedenti per malessere psicologico e/o relazionale. Un’altra tendenza che emerge dal sondaggio è quello dei cosiddetti “Quiet Quitter”: il 12% dei lavoratori italiani (circa 2,3 milioni di lavoratori) si limita a fare il minimo indispensabile, perché non si sente valorizzato nei propri talenti. L’obiettivo è solo uno: non farsi licenziare.

 

 

Serve un cambiamento

L’applicazione da parte delle aziende di nuovi modelli organizzativi, che premino il lavoro per obiettivi, con flessibilità di orario e di luogo, è indicata come una delle principali ricette per invertire le tendenze in atto. In parallelo si auspica un profondo mutamento nella cultura manageriale che porti i vertici a fidarsi maggiormente dei propri lavoratori e a rinunciare al controllo sulle persone, ma sul lavoro che svolgono. “La pandemia ha fatto crescere in molti un senso di precarietà e individualismo che porta a non vedere più il lavoro come unica o principale priorità, ma a rivendicare il diritto di avere tempo e spazio per poter vivere tutte le altre sfaccettature della vita – spiega Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice -. In questo contesto la Direzione Risorse Umane può e deve avere un ruolo chiave nel comprendere e interpretare il futuro, aiutando l’organizzazione a ridisegnare la propria relazione con le persone. Le evidenze della ricerca suggeriscono come sia necessario partire dall’ascolto e dalla presa d’atto che alla base della crisi attuale ci sia innanzitutto una sempre più pressante ricerca da parte delle persone di equilibrio e felicità attraverso il lavoro. Un totale cambiamento di mentalità che sfida la cultura tradizionale.

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